Anna Maria Ruta

La contemporaneità classica di Michele D’Avenia
“E’ questo un poeta colui che distilla
Un senso sorprendente da ordinari
Significati, essenze così immense”
(Emily Dickinson)
E’ sottile il filo che distingue i verismi dai classicismi: tanto il linguaggio verista si carica e vive di messaggi politici e sociali, del naturalismo scomposto della quotidianità, altrettanto il linguaggio classico mira all’assoluto, ad un immobilità catartica, cristallizzata nel tempo, che esorcizza il negativo, annulla la presenza della morte e si afferma come immagine assoluta di pacificata bellezza E´ il classicismo un realismo che aspira alla dimensione metafisica, che si nutre di aneliti verso l’assoluto, che vuole essere espressione di modelli di bellezza, di perfezione, di armonia. Per questo ritorna ciclicamente nelle epoche, eterno e riconoscibile, sulla scia di un ormai antico citazionismo, a designare il “modello” da seguire, il modello per tutte le stagioni, tanto da divenire perfino avanguardia. Ed è classico il nucleo generatore della pittura di Michele D’Avenia, il suo sistema linguistico, il suo impianto compositivo mirano alla chiarezza e al senso dell’ordine, il suo linguaggio visivo si nutre di un segno netto, terso, eppure morbido, vivacizzato da un tessuto cromatico sicuro. Il suo nucleo riflessivo, invece, la sua indagine sulla natura e sull’uomo (che per lui è la donna), la chiave morale con cui apre le porte dell’interiorità, è attuale. Un classicismo d’avanguardia, dunque, un dividersi dell’anima tra classico e moderno.
Nelle sue tele si legge uno studio lungo e attento della pittura, condotto sui libri e dal vivo, che lo ha messo a diretto contatto con i grandi maestri del passato, con il loro abile uso del disegno, del colore, dell’attenzione ai particolari del reale, scandagliato fin nelle più sottili sfaccettature. Il sentimento dell’antico lo ha così affascinato, l’amore per la classicità, plasmandone le doti innate fin dai suoi primi anni, gli ha consentito di viaggiare liberamente con i propri mezzi nel difficile cammino della creazione: suoi maestri i grandi del Cinquecento e del Seicento soprattutto, amati e scarnificati in tutte le molteplici sfumature e possibilità creative, ma anche quelli di una classicità più nuova, la classicità degli anni tra le due guerre, le ricerche stilistiche della Nuova Oggettività e quelle, nel ritorno all’ordine sarfattiano, di un Donghi o di un Tozzi, di un Casorati (Intimità, 2016) o di un Cagnaccio.
Ma c’è pure una classicità più attuale nelle sue immagini, quella rinata con la postmodernità, perché il classico – proprio in tempi di crisi d’identità e di creatività come i nostri – ritorna incessantemente ad attrarre ed ispirare artisti e poeti, e basta pensare ad un Balthus, ad un Hopper, dichiaratamente citato da D’Avenia (A New Day, 2013), o anche ad un meno noto Antonio Nunziante, tutti amanti della perfezione formale, in cui la realtà si rigenera divenendo arte. Anche Balthus era stato folgorato dagli affreschi di Giotto, da Piero della Francesca, da Masaccio e l’incontro giovanile con il Rinascimento italiano aveva condizionato la sua visione dell’arte e della bellezza. E non c’è forse una lezione caravaggesca, del Narciso alla fonte, dei liuti, delle ceste di frutta carnosa ed esplodente in tante tele di D’Avenia? Nella posa della figura femminile del suo pur modernissimo Chiamami, chiamami, chiamami (2005) o nell’apollineo fanciullo del 1908, che giocando, con un scarto straniante, evoca le distruzioni del terremoto messinese – forse per esorcizzarne il male -, la struttura formale è sempre classica. Nei suoi nudi femminili non c’è mai impudicizia, ma c’è una sorta di purezza catartica e i loro contorni, anche in una gestualità naturale, quotidiana, si fanno ammirare per la loro precisione morbida, come quella delle tante Veneri accovacciate, dei tanti nudi distesi della pittura antica. È un lirico non sensuale D’Avenia, anche quando coglie giovani donne in momenti intimi o contemplativi, sempre con sguardo delicato, mai aggressivo (Waiting for freedom, 2010; Il mattino dopo, 2013; La persiana rossa, 2013; Lo specchio, 2013). Nei ritratti, sempre femminili, poi (Indimenticabili gesti di sempre, 2004; Giovani pensieri, 2016) la sicurezza delle giovani donne moderne, con una serietà non malinconica, si impone in scenografie colme di silenzio – c’è il gusto del silenzio nella sua pittura -, attraversate da brividi di solitudine, ed è lì, nella solitudine, nell’inquietudine, che la pulsione creativa si spinge oltre la crosta del reale, scandaglia l’interiorità.
Lo specchio propone proprio il bisogno di scoprirsi nella più autentica nudità, di penetrare nel profondo magma dell’anima, per coglierne le pulsioni segrete, il doppio che si nasconde in ognuno, ma senza drammaticità, anzi per una autentica ricerca di pace. Si svela così una corrispondenza tra lo sguardo visivo del pittore che seleziona esseri e cose e lo sguardo dell’ interiorità, in cui stagionano pensieri, desideri, aspirazioni. Vuole salvare il vissuto dalla fragilità dell’effimero D’Avenia. E perfino nelle “nature morte”, nella rotondità perfetta e nella concretezza materica, che rasenta la scultura, degli acini d’uva e delle mele (Sull’orlo, 2009; In bilico, 2010; Traboccante pienezza, 2011; Antica ricchezza, 2013; Null, 2016), nell’esplosione vitale dei “bei vermigli fiori” della melagrana, antico simbolo di fertilità e di rinascita citato in tanta arte del passato, da Donatello a Michelozzo, da Verrocchio, a Caravaggio, in tanti steli di fiori, accoppiati a strumenti musicali, in tanti oggetti della quotidianità, siano essi la tazza, il bicchiere di vetro o la forchetta, (Accattivanti prospettive, 2005; Amore e musica, 2010), si legge la dichiarazione non controcorrente di una ricerca di perfezione, interiore ed esteriore, cui l’artista aspira. Meno sollecitato dai paesaggi, D’Avenia idoleggia le sue creature pittoriche, che diventano nelle tele visioni oniriche, realtà cromatiche, oggetti straniati dalle trame del quotidiano, emblemi di una chiarità di pensiero e di una coscienza pacificata con se stessa, pur nella gara serrata con il pennello, per ottenere un attraente gioco di trasparenze e di vibrazioni e una lucentezza materica, che sottende intime metafore.
L’idoleggiamento degli oggetti e della pura bellezza dei frutti e dei fiori ne svela il bisogno di una loro proiezione nell’infinito futuro, che rasenta la malinconia del divenire, del passaggio e l’esigenza di immortalare le cose nel senza tempo. C’è grande maestria tecnica, una profonda conoscenza della materia fin nelle sue più nascoste e minime possibilità nelle opere di Michele D’Avenia, le sue pennellate sono vibranti di colore compatto, limpido, e sono per lo più tenui, senza toni intermedi, senza sfumature, con tremuli riflessi di luce mobile, tonale. I contorni si fanno ammirare per la precisione morbida con cui sono ottenuti, le cose si sono scarnificate del loro peso, per bearsi di una leggerezza dell’essere che arriva alla metafisica. Una maturità di stile ormai che colpisce la sua, che a volte sfiora lo scultoreo, arte che ha praticato e lo ha formato, così come un utilissimo imput gli è venuto anche dall’esercizio artigianale, del restauro e del lavoro di scenografo, che ha esercitato nella necessità di specializzarsi in un mestiere non in netto contrasto con la sua vera vocazione. La passione poi ha finito con il prevalere su tutto e la sua forza creativa è esplosa sulla tela dando vita a queste sue incantate figure, immortalate in una posa perenne, in una dimensione straniata, densa di simboli, le cui modulazioni luminose sembrano pervase da echi musicali. E non a caso tanti strumenti musicali occupano le sue tele con linee perfette.
La musica del pensiero lo guida a trasmetterle quelle sue emozioni, facendolo concentrare sull’immagine che vive dentro di lui e che D’Avenia, oggi nella sua più densa maturità, carica di potenza semantica e di trasparenze. Nella post-modernità è minimo il margine esistente tra mezzi di rappresentazione diversi, tra le loro contaminazioni, ed è quindi facile pensare a suggerimenti fotografici, che possano offrirglisi, come a molti oggi. Ma è la forza della pittura che prevale azzerando il resto. Una pittura antica ripeto, di antica bellezza e perfezione, filtrata attraverso il sapere del passato, con una particolare attenzione all’ossimoro luce-ombra, in cui la luce si conferma anima delle cose, cospargendo di raffinata eleganza e compostezza l’incrocio dei segni.
Una pittura lessicalmente limpida, immersa in atmosfere trasparenti e chiare, sostenute da una struttura spaziale costruita e delimitata con sicurezza di tagli, in cui a prevalere è l’armonia della composizione e l’estrema pulizia del colore, che tutto illumina.