Alberto Agazzani

Infinite varietà.     

Inafferrabile, sfuggente, sempre mutevole e mimetica, la realtà, e quindi il realismo, in arte “semplicemente” non esiste. L’ultimo ventennio, quello della lenta, progressiva ma inesorabile  rivalutazione della pittura “figurativa” (termine più stupido che orrendo, abusatissimo, che può significare tutto e nulla, quindi insensato), ci ha variamente portato ad interrogarci sul significato (e la sostanza) del termine “pittura”, di volta in volta introducendo temi e riflessioni che ne hanno arricchito il dibattito, non di rado approdando a soluzioni mai esaustive e non di rado in contraddizione con loro stesse. Questo dibattito lo ha certamente vissuto in prima persona Michele D’Avenia, dai suoi esordi ad oggi, attraverso scelte di vita e stilistiche mai solo derubricabili all’ambito di mera biografia, ma tasselli di un ben più complesso, vario (e sofferto) percorso espressivo approdato ad una felicissima maturità pittorica.

D’Avenia sa che nulla è più difficile e complesso dell’essere un pittore “realista”. Il mondo visibile è lì davanti a tutti noi, che l’osserviamo con quotidiana, stereotipata consuetudine, riconoscendone meccanicamente gli oggetti e le immagini, ma per D’Avenia no. Per lui l’atto di dipingere la realtà richiede una concentrazione superiore, un qualcosa di molto simile al tiro al piattello, tentando di catturare un obiettivo inafferrabile e sfuggente, seppure immobile, per fissarlo in un’immagine assoluta e, solo apparentemente, momentaneamente universale.

C’è un episodio, fra i tanti che costellano la storia di questa secolare gara di tiro a segno, che meglio di qualunque altro può risultare esemplare. Nel 1866 Gustave Courbet dipinse un quadro lungamente considerato osceno e perciò destinato a pochi, addirittura per un certo periodo dissimulato sotto un altro quadro. Si tratta de “L’origine du monde” e rappresenta svelatamente un organo sessuale femminile. Si tratta di un piccolo dipinto, 46 per 55 centimetri, che fu probabilmente dipinto da Courbet per il diplomatico turco-egiziano Khalil-Bey, un eccentrico collezionista che a Parigi aveva radunato una curiosa raccolta di quadri dedicati al corpo femminile. Dopo svariate e oscure vicissitudini successive alla perdita al gioco della fortuna del suo committente, il quadro nel 1955 viene acquistato dallo psicanalista Jacques Lancan e collocato nella sua casa di campagna, celato dietro ad una tela di André Masson. Lì, invitato dal padrone di casa, fu mostrato a Pablo Picasso che, rimasto ammutolito, finalmente mormorò: “la realtà è l’impossibile”. Effettivamente per arrivare ad un tale, audace, ai limiti dell’estremo per l’epoca, superamento del realismo del suo tempo in termini di rappresentazione del corpo e del sesso, Courbet ha sentito la necessità di dipingere una figura priva dei suoi canonici e, fino ad allora, ritenuti fondamentali attributi. La donna, infatti, appare distesa, a gambe divaricate; la vestaglia di lino bianca tirata su fino ai seni, omettendo sia le spalle che, soprattutto, il volto. Non sapremo mai, dunque, nulla degli occhi e del sorriso di quella donna, mentre il suo sesso è rappresentato minuziosamente, sin nei suoi più indicibili e intimi particolari. Un quadro che quindi esce da qualunque classificazione di genere pittorico canonico al tempo assodata, rientrando in quella casella “inferma” destinata alle basse immagini pornografiche, seppure magistralmente dipinta da uno dei massimi pittori del periodo (si dovrà attendere Lucian Freud per veder definitivamente sdoganato quel genere, integrando i minuziosi dettagli del sesso col resto del corpo e con la vita).

Questo episodio ci significa l’estrema difficoltà, la pressoché totale impossibilità di inseguire la realtà nella sua informe finitezza e varietà: la descrizione pittorica di un oggetto (figurarsi di un’anima, di un’emozione o di uno stato d’animo) può avvenire anche nel più dettagliato dei modi, ma non coinciderà mai con la realtà stessa. Ed in questo limite, in questa impossibilità dichiarata da Picasso sta l’immenso potere della pittura stessa: la rappresentazione della realtà dipinta è efficace se nasconde sempre un altro livello di realtà, invisibile, altrimenti impossibile da afferrare e descrivere, metafisico. E’ un po’ quello che volle esprimere Magritte col suo dipinto “Ceci n’est pas une pipe”. In pittura il visibile è sempre e solo un punto di partenza per un viaggio nella metafisica, mai un approdo.

D’Avenia ha subitamente intuito questa natura metafisica della pittura e tutta la sua parabola pittorica rappresenta l’inesauribile, immane sforzo per superare la realtà attraverso la rappresentazione della realtà stessa.

D’Avenia, inoltre, ha capito molto bene che per far ciò, per rappresentare cioè zone invisibili e segrete della realtà, gli occorrevano artifici (trappole) sempre più sofisticati ed illusionistici (teatrali in una parola, non a caso il suo interesse per la scenografia). Per credere alla verità del suo viaggio metafisico non dobbiamo capire tutto. Come non capiamo tutto della vita (Gian Lorenzo Bernini affermava che “l’arte sta in far sì che tutto sia finto e paia vero”).

La finitezza, la maniacalità di D’Avenia nel rappresentare i suoi soggetti con definizione al limite dell’”iperrealismo” (capitolo che in nulla c’entra in questo caso) è il raggiungimento di una rappresentazione pittorica credibile al limite della certezza, ma finalizzata al dubbio ed al mistero che conducono al vero soggetto: l’invisibile, l’”altrove”, il Metafisico per l’appunto. Un apparente realismo che serve unicamente a dare subitanea universalità all’immagine e che si realizza attraverso un’inevitabile stilizzazione attraverso tutti i generi pittorici, che riporta il visibile verso forme ideali (Platone insegnava a scegliere i lati migliori di molti modelli per ricavarne un unico oggetto di Bellezza), mai completamente reali.

D’Avenia, quindi, opera una sorta di sottilissimo occultamento del visibile, traendone solo pochi elementi di partenza per disvelarne aspetti che forse la realtà non sa nemmeno d’avere. Egli ritrae la realtà per negarla, sfuggendo alla sua univoca, apparente e immediata ovvietà, convinto com’é che, per dirla con Saint Exupery, “l’essenziale è invisibile agli occhi”.

Verità e menzogna per superare i confini dell’ovvio e del visibile: “Ceci n’est pas une pipe”.

Ma ciò che può apparire semplice concettualmente richiede un lavoro ed una concentrazione straordinarie per il pittore.

La verità, raggiunta attraverso una stupefacente perizia tecnica, non potrà mai bastare senza la menzogna creata dalla sensibilità unica dell’uomo. Il virtuosismo tecnico è sempre una pericolosissima trappola in pittura, arrivando ad essere perfino la negazione della pittura stessa. E D’Avenia lo ha presto imparato. La pittura per essere tale necessita di quel tradimento della realtà che solo l’anima del pittore può operare; quella menzogna che s’insinua fra la tela ed il colore creando mistero, sospensione, seducente irrealtà.

Studiando gli antichi maestri, o restaurandone le opere (D’Avenia è stato anche restauratore nella sua gioventù), il pittore ha appreso i segreti del “fare pittura”, dalla preparazione delle tele e dei colori alla loro stesura. Ma ciò oggi appare solo come un elemento, importante ma non essenziale né esaustivo, della sua espressività dipinta. La prova più evidente sta nel fatto che i quadri di D’Avenia potrebbero tecnicamente appartenere a qualunque epoca. Eppure parlano a noi del nostro tempo, delle nostre inquietudini e solitudini e perciò impossibili da ascrivere ad un tempo che non sia quello della nostra contemporaneità.

Un discorso analogo, benché mutuato in una realtà più concreta e tridimensionale, si può applicare anche alle sue sculture, dove D’Avenia, in linea con una tradizione che giunge a noi da secoli di storia, trasforma in forme ideali gli “oggetti” del visibile, ma anche qui esaltandone il carattere metafisico attraverso una stilizzazione che è solo apparentemente verosimile. Sculture spesso rappresentanti l’universo muliebre, nelle quali marmo, pietra, bronzo e creta si trasformano, prima ancora che in forme, in sottili inquietudini, silenziosi straniamenti e solitudini. Nel solco della secolare tradizione scultorea, D’Avenia non vuole e non intende compiere un’operazione di trasmutazione dei materiali, ma ne rispetta la natura e la forza, non cedendo a manierismi sterili o a virtuosismi sempre in odore di compiacimento tecnico. Il marmo di Carrara, materiale nobilissimo per eccellenza, rimane tale, così la creta o l’affascinante, tenera e fragile Pietra di Siracusa mantengono inalterata l’essenza della loro origine, l’anima antica della loro sempiterna natura.

La contemporaneità vera è, oggi più che mai, una sintonia col tempo, con la storia, con il nostro tempo e la nostra storia. Una sintonia che pittoricamente D’Avenia realizza attraverso una sensibilità esasperata, eccessiva, a volte contraddittoria. E infinitamente varia, come la nostra vita. Ancora una volta, dunque, la pittura si realizza da un’unione unica fra arte e vita, coi ritmi e i limiti della vita stessa, oggi come da secoli, ma con un anelito all’assoluto oggi sempre più difficile, ma non impossibile. E i dipinti di Michele D’Avenia, segreto adepto della “caccia alla realtà”, ne sono la prova provata.